

Chirone era un centauro, essere mitologico metà uomo e metà cavallo, che a differenza dei suoi simili aveva un animo buono e saggio. Era esperto nell’arte medica e generoso nel condividere il suo sapere, tanto da essere stato il precettore di Asclepio, futuro dio della medicina. Un giorno venne colpito per sbaglio dalla freccia avvelenata dell’amico Eracle: la ferita che gli procurò era molto dolorosa ed essendo incurabile lo avrebbe condannato ad un’eterna vita di patimento, dato che Chirone era un essere immortale.
Questo evento fece sì che la sua stessa sofferenza gli diventasse maestra, orientandolo nella ricerca di rimedi per curarla e confrontandolo con il paradosso di essere un guaritore che non poteva guarirsi. Alla fine riuscì a scambiare la propria immortalità con la mortalità di Prometeo, ponendo così termine al vivere e al soffrire.
Quando Jung scrive che “Il terapeuta può guarire gli altri nella misura in cui è ferito egli stesso” apre una finestra di luce sulla nostra umanità di terapeuti, che non possiamo pensare di stare davanti alla sofferenza delle persone che accompagniamo senza esserci prima confrontati con la nostra.
Io penso che difficilmente arriviamo a scegliere un lavoro come questo se non abbiamo fatto delle incursioni nelle lande buie del dolore interiore, perché la domanda da cui si parte, consapevoli o no, è (quasi) sempre una domanda su di sé.
Per questo sono convinta che per stare davanti al dolore degli altri si debba aver attraversato il proprio, nominandolo, masticandolo e fino a dove è possibile digerendolo. Senza questo faticoso processo, che in fondo dura tutta una vita, il contatto che potremo avere con i mostri altrui sarà sempre mediato e difeso dalla paura inconscia che se li facciamo entrare, risveglieranno i nostri. Allora ci terremo a distanza di sicurezza e lavoreremo solo con metà della nostra anima, perché l’altra metà sarà impegnata a proteggersi dagli abitanti del sottosuolo.
La radice dell’empatia non è altro che questo: trovare dentro di sé le parti che hanno conosciuto un dolore affine e permettere loro di risuonare con quelle di chi abbiamo davanti. Il processo trasformativo parte da qui, dal sentire insieme, perché anche se le storie di vita sono diverse e diverse sono le difficoltà, quel substrato vasto e comune che è l’inconscio collettivo appartiene a tutti. La ferita inoltre ci protegge dagli eccessi del potere, ricordandoci il nostro stesso limite.
Ogni archetipo racchiude due poli opposti, così se il guaritore non raggiunge il suo paziente nel luogo della ferita per il tramite di quella stessa ferita che lui stesso si porta dentro, come potrà poi accompagnarlo ad abbracciare l’altro polo, cioè quello del guaritore interiore che abita ciascuno di noi?
**Photo by Tri Wisnu Hadi on Unsplash**

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