

“Non cambierò mai”.
“Sono troppi anni che va avanti così, forse sono solo fatto/fatta in questo modo e non c’è niente da fare”.
Non solo prima, ma anche dopo aver fatto il passo di iniziare una terapia, questi pensieri di fondo possono fare costantemente capolino nella mente. Quando qualcuno arriva nel mio studio penso però che, nonostante lo scoraggiamento, in un angolino del cuore ci siano anche la speranza e la curiosità di potersi smentire. C’è una vocina dentro che dice: “Magari si può stare meglio, magari
il cambiamento è possibile”. Lo è.
Non per tutti allo stesso modo, non per tutti alla stessa profondità, ma quando iniziamo a condividere i nostri nodi con qualcuno che allo studio dei nodi ha dedicato la propria vita, questi agglomerati interni si allentano e in alcuni casi si sciolgono proprio.
In quei momenti iniziali di dubbio, quando crediamo che i nostri problemi siano così radicati da non poter essere modificati, serve che l’altro abbia fiducia per due. Questa doppia fiducia permette al percorso di prendere vita con una base abbastanza solida per poter continuare.
La fiducia del resto – nel terapeuta e nella terapia, ma anche nei rapporti in generale– non è qualcosa di dovuto, è qualcosa che si costruisce.
Il fatto che possa non esserci può raccontare molto della vita della persona che abbiamo davanti, delle sofferenze che ha attraversato, dei tradimenti che può aver subito, delle cicatrici che ha sul cuore.
Ho incontrato diversi pazienti che non si fidavano e sono stata a mia volta una di loro, per questo non penso sia sufficiente sapere che la ricerca ci dice che la terapia modifica le connessioni neurali.
Penso invece che dobbiamo imparare a stare davanti a quella sfiducia con rispetto, sapendo che la possibilità del cambiamento si crea nel corso della relazione, quando si fa esperienza di qualcosa di diverso da ciò che si conosce e ad un certo punto ci si scopre diversi da come ci si conosceva.
Nella stanza, tutto può trovare casa.
Imparare a raccontare parti di sé di cui magari non si parlerebbe con nessuno, sapendo che non si verrà giudicati e che ogni aspetto è materiale prezioso di lavoro, ci avvicina con meno paura alle nostre ombre e ci fa fare esperienza del fatto che magari non sono così terribili, dato che l’altro è ancora lì tutto intero e ci sarà anche la settimana successiva.
Nella stanza entra tutto il nostro mondo, perché riproponiamo i modi che conosciamo di stare nelle relazioni e le aspettative che abbiamo sugli altri, per scoprire che magari non va sempre così.
Che a volte ci si può fidare.
Che a volte la risposta che arriva può sorprenderci.
Questa esperienza è già cambiamento: aiuta la nostra anima a percorrere quei sentieri che aveva smesso di frequentare perché magari un tempo aveva fatto un ruzzolone e si era fatta male.
La trasformazione è sempre su più piani: c’è una dimensione di presa di coscienza di sé, di ciò che si vive, di come si risponde alla vita e poi c’è la dimensione più implicita di quello che avviene con l’altro, che si sente nella pancia e che semplicemente si vive di settimana in settimana stando sulla poltrona, parlandosi, provando a sintonizzarsi.
Questo ha una forza che spesso è difficile descrivere con le parole.
Quando è il momento, il cambiamento esce dalla stanza e va nel mondo.
Va nelle relazioni vecchie e in quelle nuove. Va negli occhi con cui si guarda a sé e agli altri. Di questo si può gioire insieme con il cuore pieno, perché la terapia è anche questo: imparare a condividere pezzetti di felicità.

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