Ho lasciato una casa molto grande per una piccolissima.

Nella casa grande mi sentivo un po’ persa, ne usavo solo una parte ed ero come appoggiata, sempre di passaggio, in attesa di mettere radici in un altrove ancora sconosciuto. Negli anni, dopo molti traslochi e un lungo lavoro per riuscire a fare tana dentro me stessa, ho trovato il luogo in cui fermarmi: minuscolo, un po’ fuori dal mondo, intimo e selvatico al contempo. Questo luogo è uno specchio perfetto, l’esito individuativo dell’aver capito che per la mia interiorità piccolo è bello e che le sirene della crescita infinita non sono per me. Non lo sono nel lavoro e non lo sono nella vita. Nella mia tana accolgo un numero di pazienti più piccolo di altri colleghi e lo faccio perché così posso garantire a ciascuno il giusto spazio nella mia mente. Se la mia mente fosse troppo affollata, il mio lavoro funzionerebbe male, io mi sentirei sovraccarica e farei molta fatica. In un lavoro in cui gli strumenti sono la tua psiche e il tuo cuore, devi imparare ad avere la massima cura. Devi imparare a dire di no, anche se con grande dispiacere e devi conoscerti molto bene.

L'orientamento al titanismo

Comprendere che il proprio limite è la porta per l’equilibrio e il benessere richiede un lavoro di ascolto interiore, perché noi tutti tendiamo a vivere immersi nell’imperativo della crescita. Che sia economica, professionale o personale sembra si debba aspirare sempre a un di più che entra nella nostra lista dei desideri, spesso senza esserci fermati a chiederci se è quel che vogliamo davvero, se ne abbiamo bisogno. Farlo potrebbe aiutarci a comprendere che forse, non sapendo quello di cui abbiamo bisogno, tendiamo a prendere in prestito il pensiero collettivo e a farlo nostro, paragonando le nostre vite a quelle di chi ha molto più di noi e sentendoci inadeguati. Il mondo esterno sostiene questa attitudine nel suo essere costantemente orientato al titanismo. 

Attirati come gazze da ciò che luccica di più

Come scrive Hillman, nella nostra epoca tutto è super: i supermercati (poi diventati ipermercati), le superstrade, le superpotenze e anche noi vogliamo essere super, attirati come gazze da ciò che luccica di più, dalle vite perfette che vediamo esposte sui social, dai fatturati mirabolanti, dalle pagine piene di follower a cui aspiriamo per la loro funzione di specchio narcisistico portatile a cui ricorrere quando la nostra immagine interna vacilla. Ma pensare che quella sia la risposta alla fame d’altro che ci lascia buchi nella pancia è solo un’illusione: ci sarà sempre un’altra meta, una nuova ambizione da soddisfare, un di più da raggiungere e questo perché sotto c’è un tema profondo e nessun tema profondo può trovare soluzione nella dimensione puramente concreta della vita.

Esistono infinite possibilità di essere nel mondo e infinite misure della realizzazione:

se non comprendiamo quale sia la nostra, rischiamo di prendere in prestito quelle altrui e di ritrovarci ad agognare le stanze di un castello che rimbomba, non sentendo che la nostra anima vorrebbe solo guardare il tramonto dall’abbaino di una piccola mansarda.

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