Esistono molte solitudini: cercate, volute, imposte, temute, fuggite, interne, esterne e chissà quante altre. Certo è che stare da soli non è cosa da poco. Esserne capaci richiede lo sviluppo di un’abilità che si costruisce per gradi, fin da bambini. Inizia con il sentire che se ci avventuriamo qualche metro più in là ad esplorare il mondo staccandoci un po’ dalla mamma, possiamo poi tornarle vicino e ritrovarla quando siamo in difficoltà e abbiamo bisogno di lei.

Fare esperienza di queste piccole partenze e di questi piccoli ritorni, ci deposita nel cuore il sentimento della presenza dell’altro e così piano piano sviluppiamo quella che Winnicott chiamava “capacità di essere soli in presenza di qualcuno”: il bimbo gioca mentre la mamma cucina, legge o fa altro, senza per forza stare in relazione diretta con lui. Quando tutto procede bene, l’altro con il tempo inizia ad esistere dentro di noi e questo ci permette di stare soli con noi stessi sapendo che se ci manca, possiamo trovarlo lì.

Questi passaggi non sono scontati: se lo fossero non ci sarebbero così tante persone che sentono gravare sul cuore il peso della solitudine, uno stato d’animo che esiste a prescindere dall’avere effettivamente altri intorno. È come un senso profondo di abbandono, di stanze vuote e fredde, di parti isolate che non possono essere raggiunte. Sono quelle parti che forse quando hanno fatto i loro piccoli ritorni, non hanno trovato nessuno ad attenderle, le stesse parti che dovrebbero trovare nel nostro Io adulto un genitore amorevole, ma che di solito tendiamo a rifiutare perché ci confrontano con una fragilità con cui ci costa molto venire a patti.

In altri casi accade che la solitudine, che ci visita quando si spegne il rumore delle distrazioni del mondo, ci porti all’improvviso in contatto profondo con noi stessi. Se non siamo equipaggiati, quando accade sentiamo solo che i fantasmi si mettono in movimento. Questo può essere troppo doloroso, così senza nemmeno accorgerci del processo che ci sta sotto, fuggiamo riempiendo l’aria di presenze esterne che ci tolgano da quella quiete inquietante: se siamo in auto accendiamo la radio, se siamo a casa diamo voce alla tv. La compagnia di noi stessi diventa difficile da sopportare.

In un caso come nell’altro, oltre ad avere un sottofondo di sofferenza che ci accompagna più o meno consapevolmente, se non ci prendiamo cura del nostro sentire perdiamo qualcosa:

  • la solitudine come stato psichico prende la forma di una pellicola più o meno spessa che ci separa dagli altri e a volte ci fa sentire diversi ed esclusi. Il timore delle stanze fredde rischia di farci entrare in relazione solo fino ad un certo punto, di abbandonare la relazione prima di essere abbandonati e spesso tutto questo accade fuori dalla nostra consapevolezza. La solitudine che ci affligge viene allora rinforzata e garantita dal rifugio-pellicola, in una spirale che non finisce mai;
  • la solitudine come sentimento da fuggire ci priva della possibilità di incontrare la nostra anima, trasformando l’angoscia in ascolto e la compagnia di noi stessi in uno spazio di possibilità. Perché di solito, dopo che sono usciti i fantasmi, dalle profondità iniziano ad emergere cose lucenti, frutto del silenzio che attiva la creatività.

Se queste ferite vengono riparate, possiamo scoprire che dentro di noi, oltre ai buchi delle risposte non ricevute, ci sono ospiti interiori antichi o nuovi, che ci permettono di sentire che non siamo mai soli, lasciando cadere finalmente quel macigno che con il passare degli anni diventa di solito sempre più conosciuto e pesante.

**Photo by Fabrice Villard on Unsplash**

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