

Diciamolo pure apertamente: la mia professione si porta appiccicato uno stigma che non va mica via solo perché siamo nel 2020. L’idea che andare dallo psicologo sia una cosa per persone con problemi mentali e che avere problemi mentali sia qualcosa di cui vergognarsi, ha ancora radici molto salde nel nostro terreno culturale. Entrambe le cose sono false. Partiamo dalla prima.
Un mito contemporaneo molto diffuso vede nella totale autonomia (o in una sua concezione piuttosto distorta) un valore in grado di alimentare l’autostima.
In questa versione esasperata dell’archetipo dell’eroe, chi riesce per conto proprio a superare gli ostacoli è più stimabile di chi si vede costretto a chiedere una mano. Se ce la fai da solo sei forte, se chiedi aiuto invece sei un debole e se poi lo chiedi allo psicologo hai di certo qualcosa che non va.
Il guaio è che certi convincimenti condivisi nella cultura si insinuano sotto la pelle senza che ce ne accorgiamo, perché fanno parte dell’ambiente in cui siamo immersi fin dalla nascita ed è difficile liberarcene. Questo ci fa perdere delle occasioni e ci spinge molte volte a dibatterci con ostinazione in situazioni di fatica che si ripetono, quando la possibilità di stare meglio è proprio lì, a pochi passi. Certo le motivazioni possono essere anche più profonde: rimanere in un dolore conosciuto può fare meno paura che affrontare un cambiamento, ma il dolore è solo una delle possibili vie di arrivo alla terapia.
Per me lo spazio dell’analisi è un immenso campo di conoscenza di sé e degli altri.
Una preziosa strada d’accesso potrebbe essere la curiosità, il desiderio di comprendersi meglio e di coltivare quella crescita interiore che Jung chiamava “processo di individuazione”.
“L’individuazione è un’unificazione con se stessi e al contempo con l’umanità di cui l’uomo è parte” scriveva. Se nella prima fase della vita facciamo nostre le regole del collettivo, da un certo punto in avanti possiamo imparare a metterle in discussione e a creare la nostra personale visione delle cose.
Servono consapevolezza e sguardo critico.
Quando questo accade, riusciamo con meno paura a liberarci dalle spesse maschere che indossiamo per essere più apprezzati dagli altri, dimenticando chi siamo davvero.
Amo questo lavoro perché è un’opera di conoscenza e di trasformazione che allarga l’orizzonte, che apre per ciascuno la possibilità di interrogare i sogni, di esprimere la creatività, di entrare in contatto in modo più autentico con il proprio Sé.
Che arrivino per una sofferenza o per capirsi più a fondo, le persone che ho avuto la fortuna di conoscere nel mio studio hanno in comune una cosa: si stanno assumendo la responsabilità della propria vita.
Stanno scegliendo di provare a stare meglio, diventando esploratori coraggiosi. Per questo hanno tutta la mia stima, perché in un mondo incline a fare compulsivamente, a non fermarsi mai, a guardare fuori e non dentro, non è affatto scontato riuscire ogni settimana a sedersi per tre quarti d’ora con il telefono silenzioso e riflettere su di sé, insieme a qualcuno, per cambiare le cose e comprendere di più.
A volte quello che capiamo è scomodo – le ombre sono oscure per definizione – altre volte ci fa scoprire che abbiamo risorse che non vedevamo o che ci avevano insegnato a non vedere: dobbiamo provare a tenere insieme tutti i pezzi. Quando accade, ci accorgiamo finalmente che siamo interi e che tutte le parti di noi hanno diritto di cittadinanza, anche quelle più scomode, perché se hanno preso forma significa che in una certa fase della nostra vita erano in qualche modo necessarie.
Il lavoro che si fa insieme è vedere quali parti riscoprire, quali lasciare andare, quali ammorbidire, quali rinforzare, pensando a chi sentiamo di essere per davvero. A volte scoprendolo lungo il percorso.

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