

Un anno fa quando il piccolo Babel è arrivato nella nostra famiglia, aveva comportamenti anomali per un cucciolo. Mangiava poco, non giocava, sembrava apatico. Dopo diverse indagini la veterinaria ha ipotizzato potesse avere una malattia molto grave che avrebbe richiesto un costosissimo intervento dall’esito incerto.
A me si è spezzato il cuore. Vederlo lì così piccolo e così sofferente era qualcosa che mi metteva davvero a dura prova, nonostante di prove ne abbia attraversate diverse. Ma ci sono cose che pungono aree della nostra mente più di altre, in modi difficili da spiegare.
Mi ricordo di aver avvisato le mie amiche e che prestissimo la mattina mi è suonato il telefono: era Carolina, che voleva sapere come stessi. Mi ha ascoltata e poi mi ha detto – sentendo quelle parole una a una – : “Mi dispiace tantissimo. A volte è davvero troppo, immagino quanto stai male”.
A me si è sciolto un nodo dentro.
I mesi sono passati, Babel è ancora qui e quella che si è rivelata un’infezione sconosciuta è passata, ma il ricordo di quella conversazione del suo effetto così potente mi è rimasto dentro. Mi sono chiesta: cos’è successo in quel momento? Cos’ha fatto la differenza? E siccome tutto questo riguarda me, ma è anche il tessuto di cui è fatto il mio lavoro, ho iniziato a pensare.
Carolina in quella frase, nel suo tono e nella sua intenzione ha condensato molte cose:
- Mi ha ascoltata davvero, con il cuore aperto e proteso.
- Ha preso sul serio il mio dolore in tutta la sua portata. L’ha legittimato profondamente e la legittimazione, nei momenti in cui siamo così vulnerabili, ci dice che quella cosa lì così forte che abbiamo nella pancia è normale e giusto che ci sia, anche se è più grande di noi e ci sembra che la pelle tiri perché non riusciamo a contenerla.
- Non mi ha consolata. Non ha detto: “Vedrai che si sono sbagliati, sicuramente non sarà così grave”. Questo è un modo per cancellare un pezzo di dolore e lo facciamo spessissimo (esempio eclatante è stato il noto “andrà tutto bene” di inizio pandemia). Non lo facciamo per amore dell’altro, lo facciamo perché per noi è troppo penoso stare con quel dolore, vedere l’altro che soffre e gestire l’impotenza di non avere mezzi concreti per aiutarlo.
- Ha fatto ricorso a tutta la sua empatia, perché anche se non ha mai avuto un cane, sicuramente il suo cuore sa cosa vuol dire vedere qualcuno soffrire e non sapere cosa accadrà. E io quella sintonizzazione l’ho sentita tutta e mi è sembrato che il mio dolore non fosse più solo mio e diventasse un po’ più leggero.
- Mi ha fatta sentire tenuta nella mente. Mi ha offerto una tana in cui riposare per qualche minuto, sapendo che mi avrebbe portata con sé lungo la sua giornata.
Questa non è solo una parte dell’essenza di ogni buon lavoro terapeutico, ma è una riflessione che tutti possiamo fare quando ci troviamo accanto a qualcuno che attraversa un dolore. Stiamo lì, se riusciamo. Non scappiamo via. Perché la sofferenza allontana con una grande velocità.
Restare insieme nel dolore ha un potere così grande che neanche lo possiamo immaginare.

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